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Il tour US + Them ha raccolto circa 3 milioni di persone, molte di più di quelle che hanno comprato il disco che promuoveva, “Is this the life we really want”. Questa bella recensione scritta dall’amico Marco Masoni per Prog Italia ci ricorda perché non e’ un disco che si merita di passare inosservato:
ROGER WATERS – IS THIS THE LIFE WE REALLY WANT?
Forse il ritorno discografico più aspettato della storia del rock: 25 anni da quel disco meraviglioso che è Amused To Death, in mezzo molti tour fortunati, una noiosa opera lirica e parecchi nuovi brani isolati mediamente brutti o inutili. L’ex pilota dell’astronave Floyd è finalmente tornato sul lungo formato con Nigel Godrich, produttore di alto rango (Radiohead, McCartney, Beck, Air e molti altri) che non ha lesinato tagli ad alcune lungaggini verbose, all’idea di un concept stantio, agli assoli di chitarra. Tutto o quasi ruota intorno all’idea di canzone ‘pura’, cioè a strutture di canzoni su giri di accordi piuttosto semplici, armonie, melodie ed effetti sonori (che sono dal 1973 un elemento narrativo irrinunciabile in qualunque sua uscita con i Floyd o da solista) funzionali alle parole. I testi e i contenuti per Waters sono decisivi da sempre: non è un caso che nelle interviste citi Bob Dylan, Neil Young e i cantautori folk americani. Il titolo è una domanda retorica: “È questa la vita che vogliamo davvero?” Per Waters tutti noi dovremmo rispondere “assolutamente no”, per poi reagire e risvegliarci dalla nostra supermarket life, davvero fare qualcosa per cambiare il mondo in cui stiamo vivendo che è pericoloso, violento, stupido, senza amore (che rimane l’unica vera salvezza, come dimostrato da “Wait for Her”). 12 brani con vari temi, dall’attualità del dramma dei rifugiati alle solite intriganti liste watersiane di schifezze del mondo, molta feroce critica a Trump e altro ancora. Musicalmente è un distillato di Floyd 1975, 1977, 1983, e questo è sia un bene che un male: un bene per l’altissimo livello di Wish You Were Here, Animals, The Final Cut, un male per la reiterata sensazione di deja-vu e di auto-plagio che inevitabilmente prende chi ascolta. Splendide la title track, The Last Refugee, Deja Vu, Broken Bones. Ma questo disco è prog? E’ un disco per certi aspetti semplice, per altri complesso ma soprattutto autentico, ed è questo che conta. Il vero prog è nemico della banalità, non della semplicità. Qua, con questo grande disco ci si emoziona e si pensa: in questi bui anni ’10 non è poco.
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