C’e’ indubbiamente qualcosa di eroico nella carriera solista di Roger Waters. Dopo essersi affermato come “l’ego ex machina” dei Pink Floyd, il bassista non ha indovinato una scelta in 10 anni, tutto nel nome di una coerenza alquanto testarda. E’ cosi’ che malgrado tanti sforzi, tours, il megaconcerto a Berlino e un grande album, “Amused to Death”, clamorosamente Floydiano se non nel nome, Waters si e’ trovato all’inizio degli anni ’90 ad avere addirittura paura: di non avere piu’ un seguito, di essere stato smascherato come un “wanker”, una “pippa”. Ci e’ voluta una gavetta live degna di un esordiente per ricostruire fiducia e pubblico, concerti ad alto tasso Floydiano, rivolti al passato, quasi da tribute band, fino a The Wall Live, il tour solista piu’ visto, ad oggi, nella storia della musica.
Dopo tanto successo uscire con un nuovo album solista era inevitabile.
Sarebbe interessante sapere di piu’ della genesi di “Is This The Life We Really Want?”, capire perche’, a lavorazione praticamente avviata, tutti i musicisti storici di Waters sono stati sostituiti in studio dai fedelissmi del produttore Nigel Godrich. Quanto visto nei brevi clips dallo studio e intuito nelle interviste, fa pensare ad un disco preparato con cura e dedizione, a tante canzoni composte durante le registrazioni, tante eliminate (e pronte per un nuovo album, uscira’ a breve, dice Waters) e decisioni di Godrich che Waters non capiva ma ha deciso di accettare.
Con sconvolgente onesta’ intellettuale Waters ricicla passaggi acustici da “Mother”, “Pigs On the Wing”, “Your Possible Pasts”, che fanno capolino tra i solchi di “Deja Vu”, “Broken Bones”, perche’ in fondo questo vale, come compositore, Roger Waters alla chitarra acustica. Inutile aspettarsi di piu’, inutile cercare di nasconderlo.
Anche Godrich, apostolo dell’indie rock dei Radiohead e Beck, e’ intrappolato tra hip e low fi, negli stereotipi del produtture cool: tutto in analogico, batterie asciutte alla lunga fastidiose, nessun solo di chitarra (pare che Gilmour abbia declinato una partecipatzione in “Picture That”), sintetizzatori presi direttamente dal British Winter Tour ’74. Ha studiato da Floydiano il produttore-arrangiatore e pescato negli anni disperati 74/77, gli unici, insieme all’era Barrett, che gli ascoltatori di musica colta e alternativa possono apprezzare dei Pink Floyd senza arrossire, senza sentirsi, tuoni e fulmini, commerciali.
L’emozioni del disco, musicalmente parlando, arrivano dal pianoforte, dalle orchestrazioni, dagli arrangiamenti e suoni perfetti di pezzi dalla struttura semplice. La title track, ad esempio, nasce da un’improvvisazione in studio relativamente anonima, ma acquisisce spessore e valore grazie a successive aggiunte di orchestra, cori, effetti e il parlato ipnotico di Waters.
I testi, perfetti come sempre, sono tutti rivolti a noi, gli occidentali. Le nostre colpe, le nostre paure, i nostri crimini, che, come minimo, sono quello dell’indifferenza e la superficialita’, sono reiterati da Waters ossessivamente, canzone dopo canzone, senza il minimo tentativo di essere politicamente corretto. I riferimenti a Dio, o ai nostri genitori che “ci hanno fatto cosi'”, quel “io sono ancora brutto, tu sei ancora grasso, ho ancora paura”, introducono da subito il tema della scelta, il libero arbitrio: quanto, del male del mondo di oggi causato da noi, e’ inevitabile? siamo condannati a ripetere ancora i nostri errori come Waters ripete dal 1977 gli stessi accordi di chitarra? siamo destinati a rimanere per sempre indifferenti, superficiali, avari e impauriti, cosi’ come Godrich non puo’ liberarsi dal cliche’ del produttore “cool”? Vogliamo davvero vivere cosi’?
La risposta, come si e’ letto ovunque, e’ nella mini suite finale, dove l’amore per una donna e’ catartico – senza nessun bisogno di universalizzare, di essere politically correct- grazie al quale l’ennesima lista di colpe dell’uomo occidentale, la nostra parte cattiva, muore, con un lieto fine tanto rassicurante quanto semplicistico.
Quello che stupisce, quando tutte queste considerazioni farebbero pensare ad un’opera poco riuscita, e’ che l’ascolto in cuffia dell’album, dall’inizio alla fine, e’ coinvolgente, funziona. Ci si immerge in una realta’ quasi da film d’autore e il disco scorre via meglio di qualsiasi altra opera solista di Waters. Quello che razionalmente non colpisce, va a bersaglio a livello emotivo, in un modo che non puo’ che essere definito soggettivo e come tale destinato, inevitabilmente, a essere anche divisivo.
Mario dice
Bella recensione. L’unica cosa sulla quale non sono s’accordo è la seguente considerazione “…negli anni disperati 74/77, gli unici, insieme all’era Barrett, che gli ascoltatori di musica colta e alternativa possono apprezzare dei Pink Floyd senza arrossire, senza sentirsi, tuoni e fulmini, commerciali.” perché ci si dimentica del periodo compreso tra Saucerul of secrets e Meddle, che tutt’altro che commerciale. Perdonate la cavillosità. Buon lavoro.