MARQUEE CLUB
Nato dalle ceneri del glorioso The Marquee (1958-1964), situato in Oxford Street, locale da cui aveva avuto origine il R&B inglese, il Marquee Club era stato aperto in Wardour Street nel marzo 1964 con gli Yardbirds e Sonny Boy Williamson. Nel 1966 era pronto ad accogliere la nuova generazione underground: benché gli stessi musicisti avessero ammesso in seguito di suonare un genere di musica poco consono al locale ‘(Nick Mason: “Non avevamo nulla a che fare con il sound che andava per la maggiore al Marquee. Stavamo suonando a quell’epoca ciò che potrebbe essere definita ‘musica dei primi Pink Floyd’, cioè R&B piuttosto astratto, terribili stravolgimenti di Chuck Berry e cose simili”), il Marquee Club è legato comunque a filo doppio con la storia dei Pink Floyd.
Fu da lì, in pratica, che il gruppo cominciò a suonare professionalmente, grazie all’ingaggio settimanale nello “Spontaneous Underground”,che si teneva al Marquee Club tutte le domeniche pomeriggio, a partire dal febbraio 1966. “L’invito annunciava: ‘Chi ci sarà? Ci saranno poeti, cantanti, americani, omosessuali (dato che sono il 10% della popolazione), 20 clown, jazzisti, un assassino, scultori, politici e alcune ragazze impossibili da descrivere’. Lo ‘Spontaneous Underground’ aveva inizio alle quattro (…) e Steve chiedeva 3 penny d’ingresso per potersi pagare l’affitto. Solo in seguito aumentò il prezzo a 6 penny e 6 pence. L’avvenimento non veniva mai pubblicizzato”. (B. Miles in Pink Floyd, 1980) “Non veniva promesso niente” ha raccontato ancora Miles in un’altra occasione “e non c’era pubblicità, non ci si aspettava proprio niente dalla cosa. Era il pubblico stesso a rappresentare l’attrazione del locale e presto cominciò a portare cose dalla strada, stracci, ritagli di stoffa presi dal negozio vicino, tubi di cartone da suonare, piccoli mods in abito da Carnaby Street, scatole in cui saltare, forbici, cartelloni e colla, festoni e carta crespa. Era l’epoca della minigonna e degli abiti da bohème. La gente arrivava vestita coloratissima, suscitando reazioni per la strada,e si conciava in modo davvero strano mentre si trovava lì. Erano gli inizi dell’underground e tutti cercavano di essere il più oltraggiosi possibili…” (B. Miles in New Miles Express, 1976)
Tra i vari Donovan, Pete Brown, AMM che frequentarono abitualmente lo “Spontaneous Underground”, ci furono anche i Pink Floyd, che “alternavano versioni straordinariamente rumorose e soffocate di Louie Louie a pezzi di Chuck Berry a brani strumentali che accumulavano strati su strati di feedback elettronici fino al punto di esplodere in onde sonore sulle decorazioni di cartone del palco e far scoppiare la testa per lo stupore ai presenti. Dovete sapere che quello era il periodo in cui Nancy Sinatra con la sua These Boots Are Made For Walking aveva da poco scalzato dal primo posto in classifica la lunare Michelle. I Pink Floyd invece erano il gruppo più rumoroso che si fosse mai sentito. Erano anche i più strani e senza alcun dubbio i più hippies di tutti. Ci piacevano molto, erano il nostro gruppo”. (B. Miles, 1976 cit.)
U.F.O. CLUB
E’ stato uno dei “sogni in tecnicolor” più vivaci dell’underground inglese, il locale alternativo per antonomasia, luogo focale dell’”hippismo” londinese del 1967. JOHN HOPKINS (“Hoppy”), il fondatore di International Times, ebbe l’idea dell’U.F.O. prevalentemente con il fine di procurarsi nuovi fondi per il giornale. L’U.F.O. è stato il mercato dell’underground, in un certo senso; tutti gli affari, gli acquisti, l’organizzazione, gli incontri, i momenti di aggregazione più significativi ebbero luogo proprio lì. Era stato ricavato da una sala da ballo irlandese chiamata The Blarney Club e sita al 31 di Tottenham Court Road, aperta ogni venerdì notte, dalle 22 alla prima corsa della metropolitana, a partire dal 23 dicembre 1966.
Furono Hoppy e Joe Boyd a dar vita al posto, e Joe era addetto a ingaggiare i gruppi. Tutto lo staff di I.T. si occupava del botteghino, del palco, della musica e delle consumazioni. Le stanze del retro erano sempre adibite a incontri su temi vari; il Comitato per le Libertà Civili, preoccupato per l’aumento delle retate per detenzione di droga, si teneva pronto a ricevere la consueta visita della polizia; Michael X, invece, alleggeriva il portafoglio di qualche liberal per i suoi svariati progetti a favore del Black Power o forse si limitava a invitare alcuni amici a una delle sue grandi feste all’aperto; c’era anche Caroline Coon che cercava di aiutare qualcuno a uscire da un ‘viaggio andato male’ o Steve Abrams che stava per farne uno, oppure che era impegnata a organizzare la sua società denominata SOMA, che avrebbe fatto pubblicare sul Times l’annuncio: ‘Legalizzate la marjiuana’.” (B. Miles in New Musical Express, 1976) I ricordi molto dettagliati di Barry Miles, il vero esegeta dell’underground londinese, si confondono con quelli più distaccati di Jim Haynes, anch’egli direttamente coinvolto nei progetti del periodo: “Dopo il divertente lancio di I.T. alla Roundhouse, ci sembrava carina l’idea di organizzare alcuni avvenimenti che ci dessero l’occasione di incontrarci una volta alla settimana e che ci permettessero al tempo stesso di raccogliere soldi per il giornale. Così cominciammo a cercare qualche locale, finché Hoppy non trovò un club irlandese in Tottenham Court Road, che era libero il venerdì notte. Diventò presto la sede del nostro club che chiamammo U.F.O.
Era straordinario, diventò in breve il centro dell’underground.I Pink Floyd e i Soft Machine erano di casa, ma un sacco di altre bands suonavano lì occasionalmente. Jimi Hendrix, ad esempio. Arthur Brown all’U.F.O. ‘diede fuoco’ a tutti… Aprivamo intorno alle 9 di sera di ogni venerdì e chiudevamo alle 6 o alle 7 del mattino dopo. C’erano film e light shows. Banchetti di vendita di I.T., naturalmente, ma anche di OZ e di tutte le importazioni dall’America. C’era persino cibo macrobiotico e tutti si divertivano ballando”. (J. Haynes in Thanks For Coming!, 1984) Rick Sanders ha rilevato che una delle differenze più sostanziali tra l’U.F.O. e tutti gli altri locali del periodo era che “gran parte della gente coinvolta aveva una certa istruzione e spesso si trattava di insegnanti, dottori, lettori all’università, laureati, in prevalenza sotto la trentina. Non erano affatto i cosiddetti kids della classe operaia, i cui bisogni cioè erano indotti dall’industria pop, ma si trattava più che altro di persone affascinate dall’arte, ansiose di allargare la loro mente ‘per il bene di tutta l’umanità’ e ovviamente anche di poter vivere una notte fantastica”. (R. Sanders in Pink Floyd, 1974) Questo poteva essere considerato un fatto certo, almeno a giudicare dai nomi dei gruppi coinvolti: “Molte bands interessanti partirono proprio da lì” ha raccontato Miles. “I Giant Sun Trolley, ad esempio, esordirono come gruppo estemporaneo per diventare in seguito The Hydrogene Jukebox e alla fine Third Ear Band. La Purple Gang si costituì proprio all’U.F.O. e la sua canzone Granny Takes A Trip, diventò il pezzo di rappresentanza dell’underground. I Procol Harum suonarono all’U.F.O. lo stesso giorno in cui era stata pubblicata Whiter Shade Of Pale e così pure la settimana dopo. Anche i Tomorrow erano di casa nel locale. La loro My White Bicycle fu un altro degli inni del periodo. L’U.F.O. diventò il fulcro dell’intera scena.
Era il luogo in cui i Beatles sarebbero potuti venire a sedersi sul pavimento per tutta la serata senza che qualcuno chiedesse loro un autografo. Lo stesso Pete Townshend venne spesso e pagò molte volte l’ingresso ben sapendo che il ricavato serviva per il giornale. Fu proprio all’U.F.O. che scoprì e mise a contratto i Crazy World of Arthur Brown, producendo anche il loro primo single Fire. E fu lì che i Pink Floyd perfezionarono il loro sound davanti a un pubblico giusto, disposto ad ascoltare ogni loro singola nota. I roadies del gruppo sgombrarono le zone antistanti le colonne degli altoparlanti. Questa azione era stata pensata inizialmente per evitare che qualche hippy un po’ ‘fuori’ si facesse saltare i timpani, ma presto assunse un significato rituale come se si trattasse di una cerimonia Zen: la liberazione dello spazio nel quale sarebbe scaturita la misteriosa musica del gruppo”. (B. Miles, 1976 cit.) L’apertura del locale, quel 23 dicembre 1967, venne annunciata, da I.T. con: “L’U.F.O. presenta ‘Night Tripper’ con i Pink Floyd, film, diapositive, caldo, cibo; ingresso 10 penny, gratuito per i soci la notte dell’inaugurazione”. La settimana dopo, il “Night Tripper” (questa la primissima denominazione) diventò più semplicemente U.F.O. Da quel giorno i Pink Floyd vi suonarono spessissimo. In seguito, Boyd e i “superstiti” sposteranno l’U.F.O. alla Roundhouse in Chalk Farm: fu una sorpresa, il 18 agosto 1968, quando i frequentatori abituali dell’UFO club, in cui già da un po’ di settimane non si accettavano nuovi iscritti, ma soltanto ospiti dei “members”, trovarono un biglietto scitto a mano sulla porta del locale di Tottenham Court Road, che invitava tutti a spostarsi alla Roundhouse, fermata del “tube” Chalk Farm. Mai si videro convogli della metropolitane più colorati e festanti, quando il “popolo underground del flower power” fece il suo esodo nel nuovo locale. Un grosso edificio circolare in legno, coperto da una enoprme cupola, in cui si poteva entrare solo attraverso una porticina in cima a una scaletta in ferro su cio si passava uno per volta, per entrare in questo ex-scambio ferroviario, con il pavimento in cemento grezzo, ed un grosso “rocchetto per cavi” al centro come unico arredamento, oltre al palco per l’esibizione dei gruppi ed un ballatoio circolare in alto, da cui venivano proiettati i light shows. Fu una nottata magica, inaspettata: la voce si sparse per la città alternativa, e per tutta la notte continuarono ad arrivare “beautiful people”, ed anche artisti famosi, per quella che sarebbe stata la prima di una serie di “one-night events” che si sarebbe ripetuta per molti mesi a venire, facendo di questo posto il “santuario” della musica alternativa a Londra. Basti dire che nello stesso periodo, alla Roundhouse si svolsero le “Dialectics of Liberation”, una serie di incontri e di readings di Allen Ginberg e altri poeti “beat”, di Stockely Carmichael, ecc. In questo stesso luogo sarebbero passati tutti i più grandi gruppi della fulgente scena musicale del periodo, e perfino gli unici due concerti abbinati dei DOORS e dei JEFFERSON AIRPLANE.
Ma nonostante la maggiore capienza del locale (peraltro decrepito) e i concerti di gruppi famosi, l’ingente affitto e l’atmosfera poco accogliente costringeranno gli entusiasti promotori di un tempo a interrompere uno dei sogni più “colorati” dell’anno. La chiusura definitiva dell’U.F.O. segnerà la fine di un’epoca. La Roundhouse sopravviverà per qualche anno, ristrutturata come centro sociale e teatrale, prima di venir completamente rasa al suolo: al suo posto c’è ora un bel prato circolare, nel mezzo di un enorme incrocio…
THE PINK FLOYD CIRCUS
Quello di un tendone da circo itinerante di città in città è stato uno dei luoghi “immaginari” più seducenti per il gruppo a metà del 1967, decisa reazione ai continui insuccessi in provincia del loro live set. Proprio in quei giorni Wright aveva spiegato al giornalista Tim Doyle: “E’ un vero peccato che alcune sale siano così brutte. Specialmente i palchi. Ma abbiamo un’idea che potrebbe risolvere il problema. Ci potrebbe benissimo essere un Circo Pink Floyd molto presto. Abbiamo una grande tenda in grado di contenere 6000 persone che vorremmo trasportare per il paese. Si tratterà in pratica di trovare un campo fuori città, di montarla e suonare. Proprio come fosse un circo. Abbiamo anche un enorme schermo cinematografico per proiettare tutti i giochi di luce, e lo faremo senz’altro all’interno di uno spettacolo completo. Ci saremo noi a suonare, ovviamente, con l’aggiunta di qualche altro ‘numero’. Nessuno l’ha mai fatto finora, ma crediamo che funzionerà”. (R. Wright in Beat Instrumental, luglio 1967)
Waters, dal canto suo, aveva detto: “Oggi come oggi siamo frustrati dal fatto che per poter sopravvivere dobbiamo suonare anche in posti che proprio non ci vanno. E’ una situazione che non può durare a lungo e la nostra speranza è quella di poter creare dei luoghi che siano solo nostri. Ci siamo fatti un certo nome fra il pubblico, in questo periodo, e tutti vengono a vederci. Riusciamo a fare il tutto esaurito, anche se l’atmosfera di alcuni posti in cui suoniamo è vecchia, stantia. Manca il feeling necessario, insomma. Intendo che il genere di cose che facciamo non si adatta al tipo di ambiente in cui suoniamo di solito. Non possiamo continuare a suonare nei club e nelle sale da ballo. Vogliamo creare una situazione completamente nuova e ci è piaciuta l’idea di usare un tendone da circo. Avremo un grande schermo largo quaranta metri e alto più di dieci su cui proiettare film e diapositive. Suoneremo nelle grandi città e dovunque ci capiterà e sarà ogni volta un evento unico. Il punto fondamentale è comunque questo: non penso che potremo continuare a fare quello che stiamo facendo adesso”. (R. Waters a C. Welch in Melody Maker del 5 agosto 1967)
Dell’ambizioso progetto del circo, nonostante le risolute parole dei due musicisti, non se ne fece nulla e i Pink Floyd continuarono la routine dei concerti come avevano sempre fatto. Qualche anno dopo Nick Mason ebbe modo di spiegare: “Il circo arrivò a uno stadio avanzato di allestimento. In effetti avevamo una grande cupola ma per qualche inspiegabile ragione venne eliminato il tendone destinato al pubblico”.
Altro ambizioso progetto, anch’esso abortito, fu “The Slug”, ideato in preparazione del tour di THE WALL, una sala per concerti gonfiabile a forma di larva lunga 108 metri e alta 25, capace di contenere 3000 persone. Un progetto grafico del 9 dicembre 1978 (pubblicato in Bricks in The Wall di K. Dallas nel 1987) a cura dello staff del Britannia Row illustra dettagliatamente la sala mai realizzata: indicativo il trapasso simbolico-concettuale dal ludico e comunitario “circo” al sinistro “lumacotto”, simile a un verme, metafora che è ben sopravvissuta negli ultimi dischi del gruppo a firma Roger Waters.
HYDE PARK
I Pink Floyd suonarono due sole volte nel famoso Hyde Park e in entrambe le occasioni si trattò di free concerts. “L’idea dei ‘concerti gratuiti nel parco’ sostiene John Platt “risale probabilmente ai giorni di Haight-Ashbury del 1966, a San Francisco, quando gruppi come i Grateful Dead e i Big Brothers & The Holding Company suonarono gratuitamente a favore del Golden Gate Park. L’idea giunse in Inghilterra nell’estate 1968, quando la Blackhill Enterprises, un’agenzia di management e promozione che rappresentava vari artisti underground, organizzò una serie di concerti a Hyde Park, in una cavità naturale denominata The Conckpit lungo la Serpentine”. (J. Platt in Rock Routes, 1985) Ha raccontato Sanders: “La Blackhill si era impegnata a convincere la Commissione dei Parchi che l’Arena di Hyde Park sarebbe stata un posto stupendo per un concerto gratuito, come quelli al Central Park di New York, e alla fine venne stabilito un cartellone che prevedeva i Jethro Tull, il cantautore Roy Harper e i Pink Floyd. Fu un inizio perfetto per quella che in seguito sarebbe diventata una specie di istituzione”. (R. Sanders in Pink Floyd, 1974)
Proprio quel 29 giugno 1968 era uscito SAUCERFUL OF SECRETS, il nuovo album con cui la band sfidava il dopo-Barrett, e l’idea di un concerto gratuito era nata dall’esigenza di promuovere il “nuovo corso sonoro”. “Il tempo fu meraviglioso” continuava Sanders “e i 5000 presenti erano di ‘spirito buono’ (e si comportarono bene, a giudicare dalla poca spazzatura in giro). Si ascoltò dell’ottima musica e John Peel dichiarò di essere rimasto colpito dal nuovo sound dei Pink Floyd”. (R. Sanders, 1974 cit.)
La seconda esibizione del gruppo nel parco, dopo altri fortunati free concerts organizzati sempre dalla Blackhill (tra i quali quello memorabile del 5 luglio 1969 con Blind Faith e i Rolling Stones a cui parteciparono circa 150.000 persone), ebbe luogo il 18 luglio 1970, poco dopo la collaborazione a Zabriskie Point e proprio durante la lavorazione di ATOM HEART MOTHER. “Se il primo concerto a Hyde Park aveva coinvolto circa 5000 persone” ha ricordato Sanders “questo ebbe un’affluenza molto più vasta, stimata variabilmente tra le 100 e le 150.000 persone. La rivista Friendz parlò di ‘fervore religioso’, dei fans, che godevano del sole splendente, cercavano di evitare gli skinheads e gettavano i rifiuti per terra. Sul palco passarono Kevin Ayers e Robert Wyatt, Roy Harper , i Formerly Fat Harry e la Edgar Broughton Band, tutti artisti della Blackhill.” (R. Sanders, 1974 cit.) Quanto alla performance dei Pink Floyd, Miles scrisse che “una delle cose memorabili del concerto fu quando, dopo un assolo d’organo di Rick Wright, si sentì piangere un bambino. Il pubblico si guardò intorno per cercarlo, ma si rese presto conto che il pianto faceva parte della musica e proveniva da un nastro preregistrato”. (B. Miles in Pink Floyd, 1980) “I Pink Floyd hanno offerto un’ora di musica meravigliosa” riportava qualche giorno dopo Disc & Music Echo. “Hanno suonato pezzi brevi e contenuti, tranne che nel finale.
Con il sole che luccicava sulla batteria di Nick Mason e le nuvole che si aprivano sulla testa del pubblico, sembrava proprio che i suoni cadessero dal cielo”. (da Disc & Music Echo, 25 luglio 1970) Il set del concerto aveva incluso, oltre ai brani di routine del periodo, (Green Is The Colour, Careful With That Axe, Eugene e Set The Controls For The Heart Of The Sun), anche la versione embrionale di Atom Heart Mother, presentata in esclusiva qualche giorno prima al festival di Bath.
Luigi Fedele