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Lo abbiamo incontrato a Milano, tra il pubblico del concerto di Roger Waters, poi nel suo primo album solista, le canzoni dell’appartamento, ha inserito “SE”, cover di “IF” dei Pink Floyd. Potevamo non intervistarlo ? Con molta gent Lo abbiamo incontrato a Milano, tra il pubblico del concerto di Roger Waters, poi nel suo primo album solista, le canzoni dell’appartamento, ha inserito “SE”, cover di “IF” dei Pink Floyd. Potevamo non intervistarlo ? Con molta gentilezza ci ha regalato una intervista piena di passione musicale, eccola qui.
INTERVISTATRICE: Puoi parlarci del tuo rapporto con la musica dei Pink Floyd, sia in veste di musicista che in veste di fan?
MORGAN: Ne parlavo giusto ieri con un mio amico tecnico del suono, i Pink Floyd sono fantastici da ascoltare, tutti i dischi, direi compresi anche gli ultimi The Division Bell e A Momentary Lapse of Reason. Sono gli unici che negli anni ’80 non hanno ceduto a determinate leggerezze musicali, a rimanere forse intrappolati nella loro visione delle cose, che non aveva nulla a che fare con quegli anni (e io amo gli ’80). I Pink Floyd sono rimasti indietro, fortunatamente, e questo gli ha permesso di salvarsi, ne sono usciti indenni, come se non si fossero accorti che erano arrivati gli anni ’80 con le batterie elettroniche e altre cose che loro non hanno mai adottato. The Final Cut dell’83, è un viaggio spirituale di Roger Waters, il disco della distruzione quasi preannunciata dei Pink Floyd, ma poteva essere un disco scritto nel ’69; lo riconosco dal punto di vista tecnico come disco dell’83 perché ci sono dei riverberi… per il modo di utilizzare la tecnologia tipicamente databile in quell’anno, ma per quanto riguarda il contenuto musicale è un disco totalmente fuori dal tempo. Poi arriviamo all’87 con A Momentary Lapse of Reason, anch’esso fortemente datato, anzi, inattuale, che poteva uscire anche molti anni prima. Loro non hanno tempo, e probabilmente è in questo la loro forza.
I: Hai fatto la scelta di inserire “If” ne Le canzoni dell’appartamento, dimostrando il tuo apprezzamento nei confronti dei Pink Floyd con una traduzione fedele del testo. Da cosa nasce questa scelta?
Morgan: “If” mi è sempre piaciuta. Questa canzone a me procura uno stato d’animo terapeutico; è una canzone che dovrebbe esser quasi un po’ “storta” dal punto di vista psichico, e invece procura benessere, qualche volta una specie di pace interiore, quindi… perfetta.
Quando ho scoperto i Pink Floyd, ho cominciato a ricercare i loro dischi perché conoscevo il loro più famoso The Wall, che uscì quando avevo più o meno 10 anni; mio padre aveva comprato il singolo di “Another Brick in the Wall” e in casa si ascoltava, con anche il retro “One of my Turns”. Un paio d’anni dopo ho ascoltato l’album, e poi The Dark Side of the Moon e Wish You Were Here, i dischi più “commerciali”, diciamo così. Nell’adolescenza, a 15 anni, mi sono interessato ai Pink Floyd più psichedelici di Syd Barrett, poi Umma Gumma, Middle, e poi Atom Hearth Mother, che è un disco che loro stessi sottovalutano, che non considerano come uno dei loro dischi più importanti, anzi, forse, secondo loro, da quello che ho letto nelle interviste, l’hanno sempre considerato un po’ una specie di disco fatto male, mal riuscito; secondo me è in questo suo esser mal riuscito che è bello, quindi mi piace quanto è “storto”. Già il titolo e la copertina… poi c’è la suite della prima facciata che a me piace molto. Basterebbero queste cose a farlo considerare come un disco assolutamente inqualificabile. Non c’è una parola che possa definire il genere… rock sinfonico… però è già più che rock… è psico-sinfonico.
I: “If” si presenta molto visionaria, almeno nella traduzione, e a noi, leggendola, era venuto in mente un parallelo con “The Baby”, dove ci sono gli occhi di un bambino, gli occhi della purezza, che in “If” ritornano forse distorti dalla follia.
Morgan: Nelle canzoni spesso avviene uno straniamento, cioè l’autore si mette nel punto di vista di qualcun altro, ed è molto affascinante il punto di vista di un bambino, che è per eccellenza, forse, il punto di vista più straniante, e poi c’è quello del matto. La canzone in cui l’io è il bambino è “The Baby” e la canzone dove l’io è il matto è “If”. Io adopero la tecnica dello straniamento per scrivere canzoni. Per esempio, c’è un album di De André, Non all’amore, non al denaro, né al cielo, che è tratto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master, dove ogni poesia è l’epitaffio, comunque le parole di uno che è già morto e che racconta la sua vita. In questo album c’è secondo me in modo emblematico lo straniamento, e guarda caso c’è proprio una canzone che si chiama “Un Matto”, che secondo me assomiglia molto a “If”.
I: Puoi dirci due parole sul particolare arrangiamento che hai dato a “If”, che ha incuriosito alcuni fan che frequentano questo sito?
Morgan: Secondo me “If” è una canzone leggera, quasi uno standard del song-writing: ha una struttura molto classica, molto antica, quasi come la canzone del Medioevo che cantava il giullare, proprio una canzone popolare nel vero senso della parola, in effetti ci sono dentro anche i temi tipici della canzone popolare.
“If” per me è la canzone del “matto”, la più psichedelica del disco, non musicalmente, ma concettualmente. Uno dei riferimenti dell’arrangiamento di “If” è stato proprio “Un Matto”; c’è questo intreccio tra De André e i Pink Floyd che mi sono inventato io. Poi c’è anche un disincanto, anzi, un incanto alla versione più fiabesca di Paul McCartney, che secondo me è stato un grande cantastorie nelle canzoni che ha scritto lui (anche lì, “The Fool on the Hill”, “Il matto sulla collina” tanto per cambiare). L’arrangiamento dei suoi pezzi a me ha sempre ispirato molto, l’ho trovato perfetto per descrivere lo straniamento del testo. “If” l’ho in questo modo resa ancor più popolare di quel che è, invece quella dei Pink Floyd è molto stilizzata, piuttosto pura, senza tante sovrastrutture, senza stratificazioni. La mia è invece molto arrangiata, come fosse entrata nel mio album, anche per un discorso di coerenza sonora. Questo modo di suonarla, comunque, è nato da serate in casa con amici, che è la maniera più naturale per far nascere canzoni.
I: Nel tuo ultimo album da solista, Le canzoni dell’appartamento, dici di voler ricostruire la forma-canzone tradizionale; volevamo sapere se questo percorso può essere avvicinato a quello intrapreso anche coi Bluvertigo, dove sembrava che ci fosse una decostruzione della forma-canzone. Dalla de-costruzione sei in realtà arrivato alla ri-costruzione attuale? C’è un legame tra le due esperienze?
Morgan: Sì, penso proprio di sì. In fondo la canzone mi ha sempre interessato come ambito musicale, come forma, sia nel distruggerla che nel ricostruirla. Sicuramente c’è un mio atteggiamento che non si può definire di-struttivo, ma de-costruttivo che è diverso: la differenza è precisa, perché per decostruire ci vuole la capacità di conoscere le regole. Per distruggere, invece, basta una mitragliatrice, così come per distruggere un sistema legislativo basta l’ignoranza. Mi interessa contestarle le leggi, ma per contestarle vanno conosciute. Le canzoni sono molto più benigne e più libere delle leggi: nel de-costruirle, le canzoni mi sono “simpatiche”, questo significa che non voglio vederle morte, che le voglio solo un po’ pungolare, che mi piace prenderle e girarle, oppure ascoltarle al contrario, se questo procura qualche magia. Nel decostruire, capisci che una canzone non è una cosa tanto stupida, piccola, leggera, perché in realtà è composta da tante parti, è un’operazione complessa, ha un mondo molto ricco.
Dopo anni passati a smontare le canzoni, mi sono trovato un po’ di materia prima intorno, e per una volta ho voluto montare io delle canzoni a mia immagine e somiglianza; per certi aspetti si sente proprio che sono canzoni di qualcun’altro che si è già divertito a smontarle. Invece, nel caso di “The Baby”, “Altrove”, “Canzone per Natale”, c’è una semplicità che ha sorpreso anche me che ero stato abituato, soprattutto dall’opinione degli altri, a considerarmi un essere sempre sfaccettato, per forza paradossale, ambivalente. Invece no, queste sono canzoni pure e semplici che mi piacciono e fanno parte di una mia curiosità ed eclettismo, che mi porta ad essere attratto da tanti ambiti diversi, oltre alla musica. Il fatto di far canzoni non esclude il fatto di distruggerle e viceversa.
I: Leggendo il diario che tieni sul tuo sito, www.marcocastoldi.it, hai definito i tuoi concerti “concerti classici di musiche stanche” e la cosa ci ha incuriosito. Puoi commentare la definizione?
Morgan: Il “concerto stanco” era un concerto specifico, mi riferisco a un concerto a Milano dove ho suonato al pianoforte un programma di musica classica, pezzi scelti in base alla quantità di pigrizia che il compositore riusciva a metter dentro, canzoni con un altissimo tasso di passività, proprio nel loro essere, nella loro armonia. Ho messo in fila una decina di brani di compositori anche famosi, da Satie, a Schumann, Liszt…
Nelle “Consolations” di Liszt, molto sentimentali come brani, a volte si capisce proprio che lui è stanco di questo sentimento che deve ossessivamente provare, e a volte si lascia andare a un oblio che non ha niente a che fare con la passione. Siamo portati a identificare Lizst con la passione, ma secondo me, stanco di questa passione, ci regala dei momenti di perdita di passione che mi hanno incuriosito molto; laddove ad esempio il tema della Quarta o della Quinta Consolazione non l’ha scritto lui, ma l’ha fatto scrivere ad una dama di cui era innamorato. Quindi, nella Consolazione con la stella, lui lo specifica “il tema non è mio”: questo è un buon metodo per sceglierla, questa è la Consolazione stanca, lui non aveva voglia di farla. Ha fatto fare una cosa praticamente a un altro.
I: Ci interessa molto il rapporto che hai sempre avuto coi numeri, che torna in varie canzoni e anche non-canzoni inserite nella tua raccolta “Dissoluzione”, in particolar modo con lo zero e il tre. Cosa ci puoi dire?
Morgan: La numerologia è molto affascinante, sempre che non confini col dare i numeri. Ad esempio Sgalambro, filosofo di Battiato, dice che i numeri non si possono amare e in questo bisogna capire cosa intende per numeri; perché c’è numero e numero, e se non si possono amare i numeri, non si possono amare neanche i concetti, invece trovo che questa frase non si possa considerare vera, perché i concetti si possono amare.
Penso che nella maggior parte dei casi, i concetti, purtroppo, si amano: c’è un concetto in particolare, quello di amore, che si ama. Quindi, c’è chi ama il concetto di amore (io credo di esserne vittima), e qui si entra proprio in un loop, direi, che ha molto a che fare col nostro discorso sui numeri. I numeri sono la struttura che si può tranquillamente amare, anzi, è proprio dentro la struttura tutto quello che c’è fuori, nelle cose. Se noi vediamo una forma che ci piace, questa forma è quella che meglio esprime il numero: cioè, se il numero è una forma, anche una donna molto sinuosa è un numero.
I: È uscita di recente la colonna sonora che hai fatto per il film di Infascelli “Il Siero della Vanità”. Vorresti parlarcene?
M: Non avevo mai fatto una colonna sonora, avevo sempre desiderato farla e Infascelli è stato il primo regista serio, accreditato, capace, però autorevolmente bizzarro, che ha avuto il coraggio di chiedermi di fare questa impresa; fare una colonna sonora è un’operazione molto grande, c’è tanta più musica da scrivere che in un disco. È stato molto bello per me che amo le strutture, lavorare con queste; mi ha interessato molto intersecare temi, sovrapporli, lavorare con tutti questi livelli sovrapposti e che interagivano tra loro. In un disco pop non si può fare, perché c’è una canzone, poi c’è n’è un’altra, e non è che poi la quarta canzone è l’insieme delle altre. Nella colonna sonora, invece, ci sono varie possibilità.
Normalmente i temi sono legati ai personaggi, rappresentano musicalmente il loro carattere: se i personaggi dialogano, i due temi dialogano. Io non ho fatto così, non sono stato così rigidamente ancorato alla prassi, sono andato in modo più libero e anche, spero, più moderno, perché sennò non mi sarei divertito. Ho de-strutturato, ho fatto una colonna sonora che per certi aspetti ha proprio tutto il fare di una colonna sonora, per altri è il contrario di una colonna sonora, perché a volte lavora per contrasto, non commenta, ma agisce in prima persona. Comunque, il vincolo che ti pone il regista con la storia che già preesiste alla musica, la sceneggiatura e tutto l’impianto visivo, credo sia talmente preciso e comodo come calzare un mocassino perfetto, e all’interno di questa gabbia si agisce più liberamente. Paradossale tutto questo, soprattutto perché vengono a cadere miseramente tutti quei piccoli punti di riferimento anche un po’ noiosi a cui si può rinunciare, che sono le certezze della musica radiofonica.
Le battaglie che fanno cantautori, gruppi, cantanti in genere che devono fare un singolo radiofonico che deva rispondere a determinati requisiti, tutto questo per quanto riguarda la colonna sonora possiamo proprio totalmente mandarlo a quel paese.
Intervista di Anna Fioravanti e Sara Zaniboni
Grazie alla Mescal e a Marco
ilezza ci ha regalato una intervista piena di passione musicale, eccola qui.
INTERVISTATRICE: Puoi parlarci del tuo rapporto con la musica dei Pink Floyd, sia in veste di musicista che in veste di fan?
MORGAN: Ne parlavo giusto ieri con un mio amico tecnico del suono, i Pink Floyd sono fantastici da ascoltare, tutti i dischi, direi compresi anche gli ultimi The Division Bell e A Momentary Lapse of Reason. Sono gli unici che negli anni ’80 non hanno ceduto a determinate leggerezze musicali, a rimanere forse intrappolati nella loro visione delle cose, che non aveva nulla a che fare con quegli anni (e io amo gli ’80). I Pink Floyd sono rimasti indietro, fortunatamente, e questo gli ha permesso di salvarsi, ne sono usciti indenni, come se non si fossero accorti che erano arrivati gli anni ’80 con le batterie elettroniche e altre cose che loro non hanno mai adottato. The Final Cut dell’83, è un viaggio spirituale di Roger Waters, il disco della distruzione quasi preannunciata dei Pink Floyd, ma poteva essere un disco scritto nel ’69; lo riconosco dal punto di vista tecnico come disco dell’83 perché ci sono dei riverberi… per il modo di utilizzare la tecnologia tipicamente databile in quell’anno, ma per quanto riguarda il contenuto musicale è un disco totalmente fuori dal tempo. Poi arriviamo all’87 con A Momentary Lapse of Reason, anch’esso fortemente datato, anzi, inattuale, che poteva uscire anche molti anni prima. Loro non hanno tempo, e probabilmente è in questo la loro forza.
I: Hai fatto la scelta di inserire “If” ne Le canzoni dell’appartamento, dimostrando il tuo apprezzamento nei confronti dei Pink Floyd con una traduzione fedele del testo. Da cosa nasce questa scelta?
Morgan: “If” mi è sempre piaciuta. Questa canzone a me procura uno stato d’animo terapeutico; è una canzone che dovrebbe esser quasi un po’ “storta” dal punto di vista psichico, e invece procura benessere, qualche volta una specie di pace interiore, quindi… perfetta.
Quando ho scoperto i Pink Floyd, ho cominciato a ricercare i loro dischi perché conoscevo il loro più famoso The Wall, che uscì quando avevo più o meno 10 anni; mio padre aveva comprato il singolo di “Another Brick in the Wall” e in casa si ascoltava, con anche il retro “One of my Turns”. Un paio d’anni dopo ho ascoltato l’album, e poi The Dark Side of the Moon e Wish You Were Here, i dischi più “commerciali”, diciamo così. Nell’adolescenza, a 15 anni, mi sono interessato ai Pink Floyd più psichedelici di Syd Barrett, poi Umma Gumma, Middle, e poi Atom Hearth Mother, che è un disco che loro stessi sottovalutano, che non considerano come uno dei loro dischi più importanti, anzi, forse, secondo loro, da quello che ho letto nelle interviste, l’hanno sempre considerato un po’ una specie di disco fatto male, mal riuscito; secondo me è in questo suo esser mal riuscito che è bello, quindi mi piace quanto è “storto”. Già il titolo e la copertina… poi c’è la suite della prima facciata che a me piace molto. Basterebbero queste cose a farlo considerare come un disco assolutamente inqualificabile. Non c’è una parola che possa definire il genere… rock sinfonico… però è già più che rock… è psico-sinfonico.
I: “If” si presenta molto visionaria, almeno nella traduzione, e a noi, leggendola, era venuto in mente un parallelo con “The Baby”, dove ci sono gli occhi di un bambino, gli occhi della purezza, che in “If” ritornano forse distorti dalla follia.
Morgan: Nelle canzoni spesso avviene uno straniamento, cioè l’autore si mette nel punto di vista di qualcun altro, ed è molto affascinante il punto di vista di un bambino, che è per eccellenza, forse, il punto di vista più straniante, e poi c’è quello del matto. La canzone in cui l’io è il bambino è “The Baby” e la canzone dove l’io è il matto è “If”. Io adopero la tecnica dello straniamento per scrivere canzoni. Per esempio, c’è un album di De André, Non all’amore, non al denaro, né al cielo, che è tratto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master, dove ogni poesia è l’epitaffio, comunque le parole di uno che è già morto e che racconta la sua vita. In questo album c’è secondo me in modo emblematico lo straniamento, e guarda caso c’è proprio una canzone che si chiama “Un Matto”, che secondo me assomiglia molto a “If”.
I: Puoi dirci due parole sul particolare arrangiamento che hai dato a “If”, che ha incuriosito alcuni fan che frequentano questo sito?
Morgan: Secondo me “If” è una canzone leggera, quasi uno standard del song-writing: ha una struttura molto classica, molto antica, quasi come la canzone del Medioevo che cantava il giullare, proprio una canzone popolare nel vero senso della parola, in effetti ci sono dentro anche i temi tipici della canzone popolare.
“If” per me è la canzone del “matto”, la più psichedelica del disco, non musicalmente, ma concettualmente. Uno dei riferimenti dell’arrangiamento di “If” è stato proprio “Un Matto”; c’è questo intreccio tra De André e i Pink Floyd che mi sono inventato io. Poi c’è anche un disincanto, anzi, un incanto alla versione più fiabesca di Paul McCartney, che secondo me è stato un grande cantastorie nelle canzoni che ha scritto lui (anche lì, “The Fool on the Hill”, “Il matto sulla collina” tanto per cambiare). L’arrangiamento dei suoi pezzi a me ha sempre ispirato molto, l’ho trovato perfetto per descrivere lo straniamento del testo. “If” l’ho in questo modo resa ancor più popolare di quel che è, invece quella dei Pink Floyd è molto stilizzata, piuttosto pura, senza tante sovrastrutture, senza stratificazioni. La mia è invece molto arrangiata, come fosse entrata nel mio album, anche per un discorso di coerenza sonora. Questo modo di suonarla, comunque, è nato da serate in casa con amici, che è la maniera più naturale per far nascere canzoni.
I: Nel tuo ultimo album da solista, Le canzoni dell’appartamento, dici di voler ricostruire la forma-canzone tradizionale; volevamo sapere se questo percorso può essere avvicinato a quello intrapreso anche coi Bluvertigo, dove sembrava che ci fosse una decostruzione della forma-canzone. Dalla de-costruzione sei in realtà arrivato alla ri-costruzione attuale? C’è un legame tra le due esperienze?
Morgan: Sì, penso proprio di sì. In fondo la canzone mi ha sempre interessato come ambito musicale, come forma, sia nel distruggerla che nel ricostruirla. Sicuramente c’è un mio atteggiamento che non si può definire di-struttivo, ma de-costruttivo che è diverso: la differenza è precisa, perché per decostruire ci vuole la capacità di conoscere le regole. Per distruggere, invece, basta una mitragliatrice, così come per distruggere un sistema legislativo basta l’ignoranza. Mi interessa contestarle le leggi, ma per contestarle vanno conosciute. Le canzoni sono molto più benigne e più libere delle leggi: nel de-costruirle, le canzoni mi sono “simpatiche”, questo significa che non voglio vederle morte, che le voglio solo un po’ pungolare, che mi piace prenderle e girarle, oppure ascoltarle al contrario, se questo procura qualche magia. Nel decostruire, capisci che una canzone non è una cosa tanto stupida, piccola, leggera, perché in realtà è composta da tante parti, è un’operazione complessa, ha un mondo molto ricco.
Dopo anni passati a smontare le canzoni, mi sono trovato un po’ di materia prima intorno, e per una volta ho voluto montare io delle canzoni a mia immagine e somiglianza; per certi aspetti si sente proprio che sono canzoni di qualcun’altro che si è già divertito a smontarle. Invece, nel caso di “The Baby”, “Altrove”, “Canzone per Natale”, c’è una semplicità che ha sorpreso anche me che ero stato abituato, soprattutto dall’opinione degli altri, a considerarmi un essere sempre sfaccettato, per forza paradossale, ambivalente. Invece no, queste sono canzoni pure e semplici che mi piacciono e fanno parte di una mia curiosità ed eclettismo, che mi porta ad essere attratto da tanti ambiti diversi, oltre alla musica. Il fatto di far canzoni non esclude il fatto di distruggerle e viceversa.
I: Leggendo il diario che tieni sul tuo sito, www.marcocastoldi.it, hai definito i tuoi concerti “concerti classici di musiche stanche” e la cosa ci ha incuriosito. Puoi commentare la definizione?
Morgan: Il “concerto stanco” era un concerto specifico, mi riferisco a un concerto a Milano dove ho suonato al pianoforte un programma di musica classica, pezzi scelti in base alla quantità di pigrizia che il compositore riusciva a metter dentro, canzoni con un altissimo tasso di passività, proprio nel loro essere, nella loro armonia. Ho messo in fila una decina di brani di compositori anche famosi, da Satie, a Schumann, Liszt…
Nelle “Consolations” di Liszt, molto sentimentali come brani, a volte si capisce proprio che lui è stanco di questo sentimento che deve ossessivamente provare, e a volte si lascia andare a un oblio che non ha niente a che fare con la passione. Siamo portati a identificare Lizst con la passione, ma secondo me, stanco di questa passione, ci regala dei momenti di perdita di passione che mi hanno incuriosito molto; laddove ad esempio il tema della Quarta o della Quinta Consolazione non l’ha scritto lui, ma l’ha fatto scrivere ad una dama di cui era innamorato. Quindi, nella Consolazione con la stella, lui lo specifica “il tema non è mio”: questo è un buon metodo per sceglierla, questa è la Consolazione stanca, lui non aveva voglia di farla. Ha fatto fare una cosa praticamente a un altro.
I: Ci interessa molto il rapporto che hai sempre avuto coi numeri, che torna in varie canzoni e anche non-canzoni inserite nella tua raccolta “Dissoluzione”, in particolar modo con lo zero e il tre. Cosa ci puoi dire?
Morgan: La numerologia è molto affascinante, sempre che non confini col dare i numeri. Ad esempio Sgalambro, filosofo di Battiato, dice che i numeri non si possono amare e in questo bisogna capire cosa intende per numeri; perché c’è numero e numero, e se non si possono amare i numeri, non si possono amare neanche i concetti, invece trovo che questa frase non si possa considerare vera, perché i concetti si possono amare.
Penso che nella maggior parte dei casi, i concetti, purtroppo, si amano: c’è un concetto in particolare, quello di amore, che si ama. Quindi, c’è chi ama il concetto di amore (io credo di esserne vittima), e qui si entra proprio in un loop, direi, che ha molto a che fare col nostro discorso sui numeri. I numeri sono la struttura che si può tranquillamente amare, anzi, è proprio dentro la struttura tutto quello che c’è fuori, nelle cose. Se noi vediamo una forma che ci piace, questa forma è quella che meglio esprime il numero: cioè, se il numero è una forma, anche una donna molto sinuosa è un numero.
I: È uscita di recente la colonna sonora che hai fatto per il film di Infascelli “Il Siero della Vanità”. Vorresti parlarcene?
M: Non avevo mai fatto una colonna sonora, avevo sempre desiderato farla e Infascelli è stato il primo regista serio, accreditato, capace, però autorevolmente bizzarro, che ha avuto il coraggio di chiedermi di fare questa impresa; fare una colonna sonora è un’operazione molto grande, c’è tanta più musica da scrivere che in un disco. È stato molto bello per me che amo le strutture, lavorare con queste; mi ha interessato molto intersecare temi, sovrapporli, lavorare con tutti questi livelli sovrapposti e che interagivano tra loro. In un disco pop non si può fare, perché c’è una canzone, poi c’è n’è un’altra, e non è che poi la quarta canzone è l’insieme delle altre. Nella colonna sonora, invece, ci sono varie possibilità.
Normalmente i temi sono legati ai personaggi, rappresentano musicalmente il loro carattere: se i personaggi dialogano, i due temi dialogano. Io non ho fatto così, non sono stato così rigidamente ancorato alla prassi, sono andato in modo più libero e anche, spero, più moderno, perché sennò non mi sarei divertito. Ho de-strutturato, ho fatto una colonna sonora che per certi aspetti ha proprio tutto il fare di una colonna sonora, per altri è il contrario di una colonna sonora, perché a volte lavora per contrasto, non commenta, ma agisce in prima persona. Comunque, il vincolo che ti pone il regista con la storia che già preesiste alla musica, la sceneggiatura e tutto l’impianto visivo, credo sia talmente preciso e comodo come calzare un mocassino perfetto, e all’interno di questa gabbia si agisce più liberamente. Paradossale tutto questo, soprattutto perché vengono a cadere miseramente tutti quei piccoli punti di riferimento anche un po’ noiosi a cui si può rinunciare, che sono le certezze della musica radiofonica.
Le battaglie che fanno cantautori, gruppi, cantanti in genere che devono fare un singolo radiofonico che deva rispondere a determinati requisiti, tutto questo per quanto riguarda la colonna sonora possiamo proprio totalmente mandarlo a quel paese.
Intervista di Anna Fioravanti e Sara Zaniboni
Grazie alla Mescal e a Marco
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